“L’ANTICO CENTRO DELLA CITTÀ
DA SECOLARE SQUALLORE
A VITA NUOVA RESTITUITO”
La scritta che campeggia in piazza della Repubblica, sorta alla fine dell’800 sulle ceneri dell’antico mercato medievale, erede a sua volta del foro della città romana, denuncia a chiare lettere che, al di là della retorica della bellezza, il rapporto di Firenze con la propria storia architettonica è da molto tempo assai conflittuale. Alla fine del XIX secolo, in un momento di crisi economica della città e in assenza di norme chiare a tutela del patrimonio culturale (la prima legge organica di tutela verrà varata solo nel 1909) gruppi di costruttori e affaristi fecero scempio del cuore medievale del capoluogo toscano, da pochi anni orfano della corte sabauda, sostituendo all’antico ghetto una schiera di palazzoni anonimi.
L’appello al decoro, alla modernità, al “piccone risanatore” è dunque grimaldello usato e abusato (quello di Firenze è solo uno dei numerosi esempi nazionali) per giustificare operazioni di demolizione e ricostruzione, nelle quali il pubblico interesse non è sempre posto al centro del dibattito.
Non deve stupire dunque la polemica generatasi negli ultimi mesi sulla questione dello stadio di Firenze. Problema annoso, centrato non da ora sulla diatriba “stadio nuovo-restauro dell’attuale impianto”, ma che ha subito un’accelerazione grazie all’arrivo di una nuova proprietà con capitali freschi da investire.
Fino ad oggi, tuttavia, le leggi di tutela inserite nell’ordinamento giuridico italiano, a partire dall’articolo 9 della nostra Carta Costituzionale, garantivano la salvaguardia patrimonio culturale ponendola tra i principi fondanti della nostra Repubblica. Nel caso in cui fosse riconosciuta la culturalità di un bene, la sua protezione non poteva essere derogata in nome di alcun principio, per quanto importante esso fosse riconosciuto.
L’emendamento che ha introdotto, nel Decreto Semplificazioni, l’articolo 55 bis, contenente la cd. “norma salvastadi”, costituisce in tal senso una novità drammaticamente dirompente: il Legislatore sancisce per la prima volta che esistono principi (l’adeguamento agli standard di sicurezza) per i quali è garantita la deroga al Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici. Il Ministero dei Beni Culturali perderà dunque, pressoché totalmente, la possibilità di intervenire garantendo l’armonizzazione tra gli interventi proposti e la conservazione del bene (o dei suoi valori paesaggistici, a seconda dei casi).
Non stupisce che questo piccolo capolavoro di killeraggio normativo, promosso da chi aveva definito “soprintendente” la parola più brutta del vocabolario italiano, abbia trovato una sponda in una forza politica che, pur sedendo sugli opposti scranni del Parlamento, da anni pone al centro delle proprie politiche culturali la diretta abolizione delle Soprintendenze. Del resto, si sa, come nella Firenze dell’Ottocento piegata dalla crisi, in tempi di difficoltà economiche gli appetiti dell’affarismo hanno gioco facile a soverchiare gli interessi di difesa della nostra storia. Già da tempo, del resto, avevamo assistito a inedite convergenze sul tema tra esponenti dei due schieramenti: chi si ricorda del dibattito Boschi – Salvini sulla necessità di “diminuire” (sic!) le Soprintendenze?
Quello di fronte a cui ci troviamo oggi costituisce, in tal senso, il compimento di un percorso programmatico, ma anche l’approssimarsi di una minaccia incombente, ovvero che la breccia aperta in nome del restyling di un vecchio stadio malandato diventi il nuovo corso normativo che in nome di sicurezza e decoro porterà di nuovo il piccone ad abbattersi sul nostro troppo fragile patrimonio culturale. Perché quello che oggi è limitato agli stadi, domani potrà essere con facilità rivolto all’intero patrimonio italiano.