La tutela nel pantano: il personale MiBACT fra pensionamenti e rompicapo assunzioni

Da mesi il termine emergenza è entrato nel vocabolario quotidiano, associato innanzitutto alla situazione sanitaria ed a seguire a quella economica, causata, o quantomeno aggravata, dalla prima.

In questo quadro va riconosciuto che fra i settori portati all’attenzione pubblica per le conseguenze subite causa COVID e limitazioni alle attività figurano beni culturali e turismo. Ben vengano quindi le “Misure urgenti per la tutela del patrimonio culturale e per lo spettacolo”, come recita l’art. 24 del c.d. “Decreto agosto”(D.L. 104 dd. 14 agosto 2020, convertito con L. 126 dd. 13 ottobre 2020). Ben venga anche che la tutela del patrimonio venga perseguita con il potenziamento del personale ad essa dedicato.

Tuttavia, leggendo bene, sorgono alcune perplessità: senza un nesso diretto con l’emergenza COVID e la crisi conseguente, si coglie in effetti l’occasione per il reclutamento, in varie forme, di funzionari e dirigenti. Non saremo certo noi, avvezzi a un’ormai cronica carenza di personale, a lamentarcene, tanto più che si deve constatare che la norma stessa, involontariamente, manifesta la causa per cui si debba intervenire con urgenza: la penalizzazione del settore della tutela, più volte denunciata da API-MiBACT, nelle riforme degli ultimi anni, tant’è che i funzionari e i dirigenti a tempo sono destinati solo ed esclusivamente alle Soprintendenze Archeologia Belle Arti e Paesaggio (ma anche archivistiche e bibliografiche) con esplicita esclusione degli Istituti autonomi (leggi grandi Musei).

Secondo l’atto di programmazione del fabbisogno di personale 2019-2021 del 3 aprile 2020, nonostante le 860 assunzioni del 2019, i funzionari erano 4177 su 5427 da organico, destinati a ridursi a causa delle cessazioni – circa 500 all’anno – a 2533 a fine 2021, con una carenza di 2894. Ancor peggio per i Dirigenti di II fascia, ovvero per lo più i Soprintendenti: 192 in organico, ma già a marzo scorso solo 103 ed a fine settembre 94 effettivi in ruolo, ed in prospettiva 2021 uno sparuto drappello di 62.

Merita anche soffermarsi sulla loro distribuzione, prendendo come confronto il dato del 2012, che vedeva in servizio 22 archeologi (ed uno di I fascia) a fronte di 37 architetti, 35 archivisti, 24 storici dell’arte, 20 amministrativi, 18 bibliotecari; a fine settembre si registravano 24 architetti, 7 archivisti, 31 storici dell’arte, 11 amministrativi, 11 bibliotecari e soli 10 archeologi (ma nel frattempo divenuti 9, compresi quelli presso gli uffici centrali, o alla direzione di Musei, e perfino uno in distacco presso altra amministrazione).

Bene, il piano assunzionale 2019-2021 prevedeva l’assunzione per il 2020 da graduatorie esistenti di uno sparuto numero di funzionari architetti e addetti alla comunicazione, rinviando quella, con nuovo concorso, di un più folto contingente di funzionari di vari profili specialistici (250) auspicabilmente nel 2021.

Le Soprintendenze però non possono aspettare e quindi, non appena banditi i concorsi già autorizzati per funzionari tecnici, grazie al “Decreto agosto” sarà permesso il ricorso a incarichi di collaborazione a funzionari dei medesimi profili, per una durata di quindici mesi, ma non oltre il 2021; inoltre si riapre la stagione dei “Giovani per la cultura”. Senza colmare i vuoti nell’organico, perché non si parla di aumentare i posti a concorso, si destinano consistenti risorse aggiuntive all’ennesimo ricorso al precariato – ed è notizia di un paio di giorni fa la seconda lettera di costituzione in mora da parte della Commssione Europea per l’abuso di questo strumento da parte della Pubblica Amministrazione, segnatamente in settori molto vicini al nostro (scuola, alta formazione artistica e musicale, personale accademico).

A dire il vero, se i precari sono tappabuchi, fino al massimo al 2021, non è prevista nessuna “clausola” risolutiva nel caso i concorsi si perfezionassero prima di tale data. Sorge quindi il sospetto che questo reclutamento sia solo una scorciatoia per un rapido ingresso nell’amministrazione, con il solo vincolo della trasparenza e pubblicità della procedura comparativa come nel caso dei 6 professionisti chiamati a collaborare alla Segreteria tecnica di Pompei trasformati in dipendenti grazie a una selezione pubblica a loro riservata, bruciando sul tempo gli ultimi idonei del “concorsone” dei 500.

Inoltre, a questi funzionari a tempo “possono essere attribuite le funzioni di responsabile unico del procedimento”. Ma il ruolo di RUP può essere rivestito da un funzionario solamente dopo 3 (o più) anni di servizio o esperienza professionale nell’affidamento di appalti e, secondo le Linee guida dell’ANAC, deve essere individuato fra i dipendenti di ruolo delle Amministrazioni. Ci troviamo, quindi, di fronte a un pericoloso precedente di esternalizzazione del ruolo del RUP avallato da una norma di rango superiore rispetto alle Linee guida dell’ANAC. Inoltre, questa disposizione danneggia ulteriormente i funzionari archeologi e storici dell’arte che, a fronte di altre professionalità che grazie all’iscrizione agli albi riescono più facilmente ad acquisire l’anzianità richiesta dalla norma per ricoprire il ruolo di RUP, già attualmente faticano, dall’interno, a vedere riconosciuta la propria competenza anche quando esclusiva, come sugli scavi archeologici.

Nel “Decreto agosto” ancora più problematico appare il quadro del reclutamento dei dirigenti, le cui carenze finora sono state coperte con ampio ricorso ad interim e soprattutto con i famosi “comma 6”, ovvero incarichi a tempo sulla base di valutazione dei curricula. A fronte dell’autorizzazione, fin da ottobre 2017 e novembre 2018, ad assumere, tramite concorso, 17 dirigenti tecnici (5 architetti, 4 archeologi, 8 archivisti) e 9 amministrativi, di gran lunga  insufficienti rispetto ai vuoti di organico , già nel 2019 si prevedevano ulteriori 12 + 11 dirigenti. Ma solo il reclutamento dei dirigenti amministrativi è stato avviato (corso concorso SNA), diversamente da quello per i dirigenti tecnici che, dopo un faticosissimo iter, ad aprile sembrava decisamente diretto verso una procedura gestita in via autonoma e diretta, per la specificità dei profili coinvolti.

A fronte di ciò il “Decreto agosto” si dedica alla selezione dei dirigenti tecnici “anche” tramite un corso-concorso, presso la Scuola Nazionale dell’Amministrazione in convenzione con la Scuola dei Beni e delle Attività culturali (emanazione del MiBACT), che comporta una frequenza della durata di dodici mesi. Sarebbe interessante comprendere come possa rientrare fra le “misure urgenti” la regolamentazione di una modalità di reclutamento, certo prevista dalla normativa a complementarità del concorso ma sicuramente in controtendenza rispetto all’esigenza di celerità e semplificazione su cui si poneva l’accento appena ad aprile (prevedendo di avvalersi delle modalità consentite dalla “Legge concretezza”, L. 56/2019), anziché puntare a sbloccare i concorsi per titoli ed esami grazie ai quali potrebbe essere bandito un massimo del 50 per cento dei posti autorizzati.

Questo consentirebbe sicuramente anche di valorizzare le risorse interne, capaci di esercitare immediatamente le funzioni dirigenziali, senza necessità di un corso di dodici mesi, come riconosciuto nello stesso Decreto. Questo, infatti, autorizza l’ampliamento del ricorso ad incarichi dirigenziali (i citati “comma 6) attribuiti a funzionari di ruolo, in attesa dei dirigenti selezionati e poi formati con l’iter del corso-concorso. E mentre per i funzionari a tempo non è prevista alcuna clausola risolutiva, per questi dirigenti a tempo la norma prevede esplicitamente la decadenza  automatica dall’incarico alle nuove immissioni,

In tutto ciò restano, inoltre, alcuni punti poco chiari: oltre al corso-concorso, si darà seguito alla procedura celere auspicata ad aprile, quindi concorsi per titoli ed esami? E soprattutto in quali percentuali, rispetto al corso-concorso e tra i vari profili – visto lo squilibrio che si è creato negli anni, a tutto discapito della professionalità degli archeologi? A questo proposito, poi, un ultimo inquietante dubbio nasce da alcune recenti dichiarazioni, tra gli altri, del Capo di Gabinetto del Ministro, Lorenzo Casini: il corso-concorso sarà finalizzato a formare dirigenti in parte destinati alla tutela, in parte alla direzione dei Musei: un passo indietro rispetto alle selezioni internazionali? O forse un requisito o almeno un criterio preferenziale per potervi poi partecipare?

E invece, nel caso delle supplenze affidate ai funzionari, con quali criteri questi saranno selezionati? Di questo nel “Decreto agosto” non si fa cenno.

Staremo a vedere; speriamo solo che l’urgenza non sia un nuova scorciatoia  per  modalità di selezione dei professionisti del patrimonio culturale non corrispondenti al dettato costituzionale.

Riorganizzazioni perenni

Con le bozze rese note in questi giorni si sono finalmente svelati i dettagli sul progetto di riorganizzazione del MiBAC del quale il Ministro Bonisoli aveva provveduto a illustrare le linee generali negli incontri tenutisi il 20 e il 21 marzo scorsi, ai quali anche API era stata invitata insieme alle altre associazioni di categoria.

Nonostante un percorso di elaborazione condivisibile nella forma, che ha visto il coinvolgimento diretto di associazioni e sindacati tramite incontri e riunioni, e a dispetto della disponibilità a operare cambiamenti, manifestata dal Ministro stesso all’emergere delle prime perplessità durante la presentazione di marzo, la bozza di decreto presenta immutate tutte le criticità sulle quali ci eravamo espressi pubblicamente dopo l’incontro.

Il testo diffuso, infatti, non incide sugli aspetti maggiormente controversi della riforma Franceschini, ma si configura come una riorganizzazione che mira a ridurre il campo di operatività di alcuni uffici periferici, centralizzando sulle direzioni generali alcune funzionalità.

I Segretariati Regionali infatti vengono smantellati e sostituiti da  strutture distrettuali sovraregionali con compiti ridotti e residuali. Tale depotenziamento, se da un lato contribuisce a semplificare la macchina amministrativa, risulta di difficile attuazione in un panorama di estrema frammentazione degli organi territoriali preposti alla tutela. A fronte di Soprintendenze provinciali o sovraprovinciali (il cui numero ancora non è noto, ma che in base alle dichiarazioni potrebbe risultare addirittura superiore alle 37 attuali), l’eliminazione di strutture di livello regionale comporta il riaccentramento a Roma di una serie di funzioni (emanazione dei decreti di vincolo e pronunciamenti delle verifiche di interesse in primo luogo), con un conseguente sbilanciamento dei carichi di lavoro sulle direzioni generali ed un prevedibile allungamento dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi.

Sorge il sospetto che l’accentramento di molte funzioni di tutela a Roma vada nella direzione di svuotare di competenze gli uffici periferici per facilitare in un secondo momento il passaggio delle restanti competenze alle Regioni.

La scelta, inoltre, di creare una Direzione Generale che gestisca almeno in parte contratti e concessioni per gli uffici territoriali del Ministero costituisce ulteriore motivo di preoccupazione. Se da un lato è condivisibile la volontà di dettare criteri uniformi in materia, ancora una volta bisogna sottolineare il rischio di allungare a dismisura la tempistica connessa alla stipula dei contratti.

Privi del raccordo dei segretariati regionali, gli altri uffici periferici sembrano destinati a navigare in ordine sparso, senza la funzione di coordinamento a livello regionale assicurata dai CoRePaCu. A complicare ulteriormente il quadro interviene la riforma dei Poli Museali Regionali, trasformati in Direzioni Territoriali delle Reti Museali. L’accelerazione su una funzione di coordinamento dei vari musei (in una prospettiva di coinvolgimento degli istituti di cultura di proprietà di altri Enti) può risultare importante, in modo da potenziare la valorizzazione del patrimonio; resta tuttavia il fatto che la creazione di strutture sovraregionali contribuirà a indebolire l’azione del Ministero sui territori, scollando ulteriormente la valorizzazione dalla tutela. La stessa possibilità (adombrata, ma non chiaramente definita a livello di regolamento) del ritorno di (alcuni) musei e aree archeologiche alle SABAP contribuirebbe, in assenza di un coordinamento forte, alla creazione di una valorizzazione a due velocità (o a tre, considerando il ruolo dei musei autonomi), per la quale rischiamo di assistere ad una dispersione di risorse economiche e umane, aggravata dall’allontanamento delle sedi delle Direzioni Territoriali dai comprensori museali di competenza e dall’evidente confusione generata dalla presenza di più strutture differenti che si occuperanno di valorizzazione.

Gli stessi musei autonomi, inoltre, si trovano ad essere ridimensionati nella loro discrezionalità, privati come sono dei consigli di amministrazione, elemento questo che oltre a costituire una garanzia specifica per ogni museo (in quanto tagliato sulle specificità dello stesso), avvicinava per la prima volta i grandi musei italiani a quelli internazionali come modalità di gestione.

Risulta infine incomprensibile ai limiti dell’autolesionismo l’abolizione di due luoghi della cultura autonomi a tema archeologico: il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e il Parco Archeologico dell’Appia Antica. La scelta di privare tali istituti dell’autonomia appare oscura e poco giustificabile, in quanto penalizza strutture che, pur estremamente differenti tra loro, per ragioni diverse costituiscono importanti luoghi di valorizzazione del patrimonio: da potenziare, piuttosto che da cassare.

Con la perdita di autonomia di Villa Giulia rischia di venire meno l’operazione di rivitalizzazione di un museo chiave per la comprensione delle antichità etrusche e italiche partita con la nomina dell’attuale direttore. Per l’Appia Antica siamo all’assurdo: il nuovo responsabile, scelto dopo una selezione internazionale durata mesi, si trova ad essere dimissionato ancor prima della presa di servizio.

Infine, se per gli organi preposti alla tutela apparentemente quasi nulla cambia, non possiamo non ribadire i potenziali rischi della commistione di funzioni di tutela e valorizzazione affidate alle SABAP, con la possibile consegna a queste ultime di alcuni luoghi della cultura, che potrebbe confliggere con la persistenza di strutture territoriali di gestione dei musei, innescando conflitti di competenze e difficoltà nella gestione congiunta delle attività di valorizzazione.

Se poi viene scongiurato il rischio della creazione di una “Soprintendenza del Mare” la cui effettiva operatività sembrava di difficile attuazione, resta da chiarire il funzionamento delle previste “sedi distaccate dedicate al patrimonio subacqueo” e i rapporti di queste con gli storici nuclei di archeologia subacquea ancora esistenti e lasciati ai margini nel corso della precedente riforma.

 

A fronte del quadro prospettato, restano tutt’ora in piedi i principali problemi organizzativi del Ministero: ancora lamentiamo infatti la persistente assenza di una catena di comando tecnica consentita solo da uffici settoriali e la separazione di fatto tra funzioni di tutela e valorizzazione.

In buona sostanza, ci troviamo di fronte ad un testo che non risolve i problemi della precedente organizzazione voluta dall’allora Ministro Franceschini, ma che, se possibile, rischia di complicare ulteriormente il quadro complessivo. Questo nonostante la fase di ascolto della nostra, come di altre associazioni e sigle sindacali, che pure avevamo avuto modo di apprezzare, ma alla quale evidentemente non è seguito un recepimento delle istanze segnalate.

Il rischio adesso è di subire un ulteriore processo di riorganizzazione che si troverà ad intervenire sugli organi ministeriali già provati dai recenti stravolgimenti, con un conseguente, ulteriore colpo alle attività di tutela e valorizzazione. L’esatto contrario di quanto sarebbe necessario per i Beni Culturali italiani.

Colosseo restauro

Le riforme che verranno. Lettera di API al Ministro Bonisoli

Dopo l’incontro con il Ministro avvenuto il 20 marzo scorso, riguardante la ormai imminente nuova riforma organizzativa del MiBAC, API ha avviato una riflessione sulle principali criticità del nuovo assetto del Ministero, inviando le proprie considerazioni all’On. BOnisoli. Di seguito riportiamo il testo della lettera:

Gentilissimo Sig. Ministro,

L’Associazione Archeologi del Pubblico Impiego – API, alla luce dell’incontro tenutosi il 20.03.2019 e dei documenti di presentazione della Riforma divulgati anche successivamente, pur apprezzando la soluzione adottata nel voler condividere con le associazioni la riforma in atto e nel voler intraprendere azioni volte al superamento delle carenze di organico e al miglioramento dei processi, degli strumenti per la gestione dei contratti, delle sponsorizzazioni, degli appalti, delle concessioni, delle forme di partenariato pubblico/privato, ritiene doveroso porre all’attenzione Sua e del Presidente della Commissione alcune criticità della proposta presentata.

È innanzitutto doveroso sottolineare come API abbia più volte ribadito, in documenti pubblici e in note trasmesse alla Segreteria del Ministro e all’attenzione della stessa Commissione, che la tutela archeologica ha specificità proprie. Tali specificità non consistono solo nella particolare azione di controllo istituzionale sul territorio ma anche nell’esigenza di disporre di strutture per la conservazione e il restauro del patrimonio archeologico rinvenuto; sono condizioni che impongono la presenza di una dirigenza con competenze specifiche del settore nonché una visione di intervento su larga scala territoriale, che sia in grado di garantire un’azione di tutela omogenea ed efficace su un patrimonio che si accresce ogni giorno. Per tale ragione la soprintendenza unica, così come attualmente concepita e così come si prospetta nel prossimo futuro, non è una soluzione efficace né per la preservazione del patrimonio culturale né per una piena soddisfazione dei diritti dei cittadini.

Infatti, la centralità dei cittadini nell’azione ministeriale (più volte indicata come fulcro della riforma in itinere) deve essere intesa come dovere dello Stato di preservare il patrimonio culturale della nostra Nazione per l’educazione e il godimento di tutti i cittadini, delle generazioni presenti e future, e non come mero coinvolgimento per fini privatistici. In tal senso, solo un’azione di tutela unitaria e competente può salvaguardare tale patrimonio e consentirne forme adeguate di valorizzazione.

Partendo da questo ineludibile assioma, che va attuato con tutti i mezzi in possesso del MiBAC , ossia l’unitarietà delle azioni di tutela, conservazione e  valorizzazione, e alla base di questi, della ricerca scientifica, si ritiene che la proposta presentata presenti dei punti di debolezza che possono inficiare tali pratiche e quindi annullare il beneficio per i cittadini, come sopra inteso.

 

Si richiede pertanto un ripensamento fattivo sui seguenti aspetti critici:

  1. SABAP – Al di là di tutte le criticità sopra esposte, per cui API continua a ritenere le Soprintendenze uniche soluzioni non efficaci e ad auspicare il ritorno a Soprintendenze archeologiche regionali, il prospettato moltiplicarsi delle SABAP sul territorio non porterà di certo alcun avvicinamento ai cittadini, ma di fatto alla perdita di una visione scientifica più ampia, ad una inevitabile perdita di fiducia da parte degli Enti locali e dei cittadini nei confronti di uno Stato che risulterà eccessivamente frammentato e letteralmente inabile al coordinamento delle proprie azioni sul territorio. Tali SABAP non tengono peraltro conto delle dinamiche storiche e culturali che avevano portato, oltre un secolo fa, all’istituzione di uffici di tutela con specifiche estensioni territoriali.

Si chiede pertanto quantomeno la riduzione delle SABAP a una unità regionale o a non più di 2 unità (per limitati casi dove estensione geografica e caratteristiche storiche potrebbero giustificare tale divisione). Inoltre, attualmente le SABAP sono in grave difficoltà a causa della frequente mancanza di una sede unitaria (mentre si richiede una gestione unitaria della pratica) e per la difformità delle procedure tra i vari settori tecnico-scientifici (nonostante la richiesta di produrre un unico parere). Appare poi contraddittoria, a fronte delle strutture unificate create con il DM 44/2016, la prospettata istituzione di “Soprintendenze archeologiche del mare”, il cui disegno appare quanto mai nebuloso rispetto all’importantissimo ruolo di tutela che potrebbero (e dovrebbero) ricoprire a livello interministeriale. Si rappresenta, infine, il rischio di un ulteriore ed inutile sperpero di risorse da dedicare a discutibili passaggi patrimoniali tra i vari uffici, per i quali gli stessi uffici non sono in alcun modo attrezzati.

Per il superamento di tali problematiche si richiede la costituzione di una specifica commissione tecnica formata anche da personale degli uffici periferici.

 

  1. SABAP, AREE ARCHEOLOGICHE E MUSEI – L’attribuzione “di aree e parchi archeologici minori in capo alle SABAP, anche al fine di rafforzare il nesso tra le attività di tutela, di ricerca e di valorizzazione”, così come delineata, non si rivelerà efficace ma anzi dannosa. Con la precedente riforma, a tutti i musei è stata imposta una mission più improntata allo sviluppo della valorizzazione. Per ragioni incomprensibili, le aree archeologiche, salvo qualche raro caso, sono rimaste indietro. Mentre si costituivano le reti museali, i pacchetti turistici e le offerte integrate, luoghi della cultura di piena dignità restavano fuori dai circuiti, perché affidati a uffici che non avevano più tra le loro competenze la valorizzazione. Il DM 14 marzo 2018 ha in parte sanato la situazione e restituito almeno ad alcune aree archeologiche l’opportunità di rientrare nei circuiti dell’offerta culturale strutturata dal lavoro dei Poli.

Ora, questo nuovo intervento che tende a riportare le aree archeologiche agli uffici di tutela si rivelerà inevitabilmente dannoso se non prevederà che musei territoriali, aree e parchi archeologici siano trattati in maniera omogenea e unitaria e se non saranno previsti  quantomeno degli uffici dedicati per regolamentare tali aspetti: se fanno capo all’ufficio di tutela, devono poter rientrare nella rete museale (e quindi occorre internamente alle SABAP un ufficio di valorizzazione dedicato, con il relativo Responsabile); se fanno capo all’ufficio di valorizzazione, devono poter essere tutelati.  In caso contrario, le aree e i parchi archeologici minori saranno irrimediabilmente scollati da qualsiasi sistema di valorizzazione museale ad ampio respiro e perderanno la loro coesione con il museo territoriale, espressione appunto di un dato territorio archeologico.

In altre parole musei archeologici e relative aree archeologiche di un dato territorio devono poter stare insieme per garantire una reale valorizzazione e anche una più organica e unitaria azione di tutela.

 

  1. RETI MUSEALI SOVRAREGIONALI – (in numero di 11). Oltre a non risultare chiara la loro organizzazione, accorperebbero realtà museali di regioni diverse per storia e genesi museale, eliminando di fatto qualsiasi azione di coordinamento con gli altri uffici periferici (sia con le SABAP, che potrebbero diventare più numerose, sia con i Segretariati). Preoccupa che tale divisione non rispecchi quella che è la struttura dello Stato Italiano, articolato in Regioni, Province e Città Metropolitane. Tale struttura non può che portare a un definitivo scollamento tra la tutela esercitata a dimensione poco  più che sovra-provinciale, e la valorizzazione, che sembra configurarsi come mero elemento economico e non come effettivo incremento culturale, perdendo la valenza di riferimento per il territorio regionale (e quindi vicino ai cittadini) .

Si chiede pertanto di mantenere le Reti Museali ad estensione regionale (non dividendo però le aree archeologiche dai musei) oppure di sopprimere le reti museali stesse, riassegnando personale e strutture alle SABAP, le quali -attraverso una propria area funzionale Valorizzazione- possano provvedere alla costruzione di un progetto unitario ed equilibrato.

 

  1. SEGRETARIATI INTERREGIONALI – Avendone evidenziato, per il futuro, solo la funzione amministrativa, organizzativa ed ispettiva, organizzata su base sovra-regionale, si evince che verrà a mancare la funzione di coordinamento tra uffici periferici regionali (oggi SABAP e Poli Museali) per fondamentali attività che meramente amministrative non sono, quali ad esempio le Commissioni Regionali per il Patrimonio Culturale (COREPACU), che esaminano gli aspetti relativi alla c.d. “vincolistica” portando all’adozione dei provvedimenti di tutela necessari. Tali attività meglio si regolano con un coordinamento regionale (dietro direttive centrali) e non con 7/8 uffici interregionali che accorpano realtà diverse.

Su tali aspetti si chiede specifico chiarimento tecnico.

 

In ultima analisi, si ritiene che l’eccessiva diversità di organizzazione dei comparti della tutela e della valorizzazione nonché la sostanziale mancanza di un effettivo coordinamento a livello regionale tra questi due pilastri della Cultura, portino a una forte compressione dell’autorevolezza e delle competenze del Ministero in una materia in cui occorre una visione il più possibile unitaria e paritaria.

 

Certi dell’attenzione Sua e della Commissione, porgiamo con l’occasione i nostri migliori saluti.

 

dott. Italo M. Muntoni

Presidente Nazionale di API – MiBACT

 

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Per un’archeologia fuori dall’impasse. Lettera al Ministro Bonisoli

Proprio in questi giorni, tre anni fa, grazie ad un emendamento “natalizio” della legge di bilancio in approvazione da parte del Parlamento, vennero affidate all’allora Ministro per  i Beni Culturali, Dario Franceschini, le deleghe per trasformare definitivamente l’assetto del Ministero dei Beni Culturali, già investito dalla dolorosa scissione messa in atto nel 2014 fra servizi di tutela e valorizzazione.

Alla luce di quanto verificatosi da allora, non possiamo che ribadire la nostra posizione di ferma contrarietà alla riforma nel suo complesso: le nostre iniziali perplessità sono state purtroppo confermate dalle problematiche emerse nel corso di questi primi anni di attuazione.

È per questo che abbiamo deciso di presentare al nuovo Ministro Bonisoli un breve dossier, qui allegato, frutto del confronto tra i soci dell’Associazione e contenente le principali criticità che, attraverso il nostro quotidiano lavoro negli uffici del Ministero, abbiamo potuto verificare con mano a partire dall’avvio della riforma.

Fuori da ogni intento polemico, dunque, e con lo spirito di servizio che da sempre contraddistingue l’operato dei nostri iscritti, offrriamo oggi il nostro contributo al dibattito recentemente riaccesosi sul futuro dell’archeologia in Italia; abbiamo chiesto inoltre al Ministro di volerci ricevere, per un confronto diretto sulle molte questioni ancora lasciate aperte dalla riforma Franceschini. Certi del suo interesse per le tematiche sollevate, contiamo presto di poter dar conto di quanto sarà discusso nel corso dell’incontro.

Gentilissimo Sig. Ministro,

in vista di una auspicabile analisi sulla situazione complessiva del Ministero, la nostra Associazione, formata da funzionari archeologi in servizio negli uffici centrali e periferici, intende sottoporLe alcune riflessioni inerenti il settore archeologico. Già lo scorso 18 luglio Le avevamo indirizzato una lettera con una richiesta di incontro, richiesta che ora qui Le rinnoviamo per confrontarci con Lei sui punti che qui di seguito Le sottoponiamo, con lo spirito di collaborazione e servizio che ha sempre animato i membri della nostra Associazione.

  1. Riaffermazione dell’autonomia tecnico-scientifica del settore archeologico

La seconda fase della riforma Franceschini ha previsto l’accorpamento delle Soprintendenze Archeologia alle Soprintendenze Belle Arti e Paesaggio (già a loro volta accorpate a quelle per i Beni storico-artistici), creando uffici con competenze miste diretti da Soprintendenti tecnici, che tuttavia hanno preparazione specifica solo in uno dei settori che sono chiamati a dirigere. L’obiettivo principale di questo intervento era di creare un ufficio unico di riferimento per l’utenza, che garantisse risposte univoche alle diverse richieste presentate in materia di tutela di Beni Culturali. Allo stato attuale dei fatti questo obbiettivo è ben lungi dall’essere raggiunto.

Nella maggior parte dei casi, infatti, benché archeologi e architetti siano spesso chiamati ad esprimersi sugli stessi interventi e le stesse opere, i beni sui quali esercitano la tutela non sono coincidenti e le normative di riferimento sono articolate in modo differente e con tempi procedimentali diversi (come accade ad esempio per le normative sull’archeologia preventiva, che prevede un parere espresso in fasi di progetto di fattibilità, e quelle sull’autorizzazione paesaggistica, espressa sulla base del progetto definitivo). Ciò ha creato estrema confusione nell’utenza esterna in tema di presentazione delle istanze. All’interno degli uffici del Ministero, che sarebbero tenuti a questo punto a dare risposte uniche, si sono generati enormi problemi nel coordinare i diversi aspetti.

Ne deriva che nella maggior parte dei casi i pareri continuano ad essere disgiunti, emessi in tempi diversi e, talvolta, contrastanti nei contenuti. In altri casi la necessità di esprimere un parere unico conduce ad alcune forzature di carattere procedurale che potrebbero però generare dubbi sulla validità dei provvedimenti e/o delle prescrizioni e quindi generare contenziosi. Non si può tacere inoltre il fatto che vi sia generalmente un’attenzione minore dei Dirigenti verso l’area dell’archeologia, dovuta ai numerosi ricorsi che colpiscono i pareri emessi relativamente ai settori architettonico-paesaggistico, fattore che spesso produce squilibri notevoli nelle risorse umane destinate e nell’assegnazioni delle pratiche.

La tutela archeologica, dunque, è risultata pesantemente indebolita, con importanti ricadute anche sul lavoro dei professionisti esterni cui vengono affidate le indagini archeologiche sul campo, significativamente in diminuzione. Certamente la debolezza normativa di cui l’archeologia italiana da tempo soffre non aiuta, dal momento che solo per le opere pubbliche sono previste procedure chiare e codificate. L’abolizione degli Uffici specificamente dedicati, che riuscivano almeno in parte a sopperire a questa lacuna, ha drammaticamente riportato alla luce il problema.

La mancanza di competenza tecnico-scientifica specifica in materia archeologica da parte di molti dirigenti, inoltre, non consente di garantire uniformità amministrativa all’interno dello stesso Ufficio o, nel caso delle regioni in cui esistono più SABAP, fra territori contermini della stessa Regione, dal momento che la definizione delle modalità di gestione di pratiche analoghe viene demandata ai soli funzionari senza chiari indirizzi di carattere generale. Ciò influisce pesantemente sui rapporti con gli Enti territoriali, ogni qual volta ci si trovi a valutare progetti che coinvolgono più province o l’intero territorio regionale.

In conclusione, appare evidente che la riforma non è stata effettivamente un’operazione di creazione di nuovi uffici con competenze miste ma, per citare la circolare ministeriale DG OR 118/2016, ha comportato la “soppressione” di un ufficio -le Soprintendenze Archeologia- nell’altro.

Visto quanto finora illustrato, considerato anche il mescolamento delle competenze a livello centrale, lì dove il neonato Istituto Centrale per l’Archeologia sembra negli ultimi tempi assumere ruoli una volta propri della Direzione Generale Archeologia, e anche alla luce dell’attuale situazione di ibridazione tra lo stesso ICA e il Servizio II della DG ABAP, ci sembra doveroso che venga ripristinata una struttura dirigenziale autorevole espressamente dedicata al settore archeologico, che possa svolgere funzione di indirizzo per le tematiche archeologiche di interesse generale e di coordinamento in materia di tutela archeologica, soprattutto al fine di evitare un possibile mancato raccordo tra linee ed indirizzi perseguiti dagli uffici centrali ed effettiva applicazione degli stessi a livello periferico.

Inoltre, seppure con modalità e ruolo da definire, questi uffici centrali dovrebbero curare in modo approfondito le esigenze legate sia alla necessità di continuo aggiornamento del personale tecnico del settore Archeologia, mediante promozione e/o riconoscimento di attività formative dedicate (interne/esterne al MiBAC), sia alla necessità di garanzie di finanziamento per i progetti presentati dagli uffici ministeriali nell’ambito della programmazione dei lavori pubblici.

  1. Figure dirigenziali specifiche per ogni settore

Il settore archeologico presenta peculiari specificità: la tutela archeologica è infatti l’unico ambito del Ministero che lavora su beni prevalentemente invisibili e non ancora noti; quindi, elemento essenziale per l’esercizio dell’attività è l’approfondita conoscenza del territorio, delle sue problematiche e delle dinamiche culturali che lo hanno caratterizzato nel tempo. La necessità di individuare i beni non ancora conosciuti rende indispensabile confrontarsi con gli enti locali per intervenire sulla programmazione territoriale. Per l’archeologia inoltre, particolarmente soggetta a travisamenti e sensazionalismi nei mass media, è particolarmente importante una attenta opera di promozione della conoscenza del patrimonio, che è da considerare essenziale tra i compiti del Ministero, non solo per permettere la fruizione dello stesso, ma soprattutto per favorire la partecipazione consapevole alla sua tutela.

In questo senso la perdita di una dirigenza tecnico-scientifica con competenze specifiche, in grado di indirizzare e coordinare le attività di conoscenza, tutela, educazione al patrimonio archeologico e valorizzazione, ha ulteriormente comportato un indebolimento dell’attività di tutela sul territorio.

Effettivamente, il vuoto che si sarebbe creato con l’abolizione delle dirigenze tecniche era stato previsto dal legislatore, che ha introdotto le figure dei “Responsabili di Area Funzionale”. Tali figure, selezionate, a rotazione, tra i funzionari in servizio, non rivestono però alcun ruolo dirigenziale e sono dunque prive dell’autorità necessaria per coordinare i colleghi e presentarsi all’esterno con la necessaria autorevolezza.

Lo stesso indebolimento sofferto per la soppressione delle Soprintendenze Archeologia con dirigenti dedicati esclusivamente al settore archeologico, ha interessato anche gli Uffici centrali.

  1. Riunificazione delle funzioni di tutela e valorizzazione

La separazione fra tutela e valorizzazione, attuata attraverso l’istituzione dei Poli Museali e la soppressione delle Soprintendenze Archeologia, ha ulteriormente indebolito le funzioni di tutela proprie degli uffici periferici. Questo ha determinato la separazione dei musei e dei parchi archeologici dal territorio di riferimento, facendo venire meno sia il naturale collegamento di tutela, scavo e restauro con valorizzazione e restituzione pubblica, sia il legame diretto con il territorio, là dove piccoli musei e realtà archeologiche erano punto di riferimento per segnalazioni e progetti condivisi (anche attraverso le scuole e le associazioni locali).

La riforma Franceschini ha previsto inoltre in numerose regioni la frammentazione delle Soprintendenze archeologiche regionali su più uffici. Le Soprintendenze archeologiche, strutture ormai da tempo consolidate sul territorio, erano dotate di biblioteche specializzate, laboratori di restauro e fotografici e magazzini dei reperti, strumenti indispensabili per l’esercizio dell’attività di tutela. I laboratori di restauro in particolare, oltre alle consuete attività di consolidamento e restauro conservativo dei reperti e di progettazione di lavori sui beni culturali archeologici, svolgevano un’importante attività di consulenza sui cantieri di scavo connessi all’archeologia preventiva o di privati, qualora fosse necessario intervenire d’urgenza per garantire la conservazione dei reperti o delle strutture. Va ricordato che compito del Ministero per legge è la conservazione di tutti i beni archeologici, non solo quelli da destinare alla valorizzazione. Le Soprintendenze Archeologiche conservavano inoltre importanti archivi documentali, non solo relativi ai procedimenti, ma anche alle attività di ricerca archeologica sul territorio, patrimonio di conoscenze necessario per la tutela.

La frammentazione delle Soprintendenze ha inevitabilmente comportato il passaggio di laboratori, biblioteche e archivi ad un’unica sede di Soprintendenza ABAP con ridotte competenze territoriali o, soprattutto nel caso di laboratori di restauro, ad un singolo Museo o un Polo Museale. De facto quindi molti uffici mancano di tali servizi, con conseguente grave perdita di funzionalità degli stessi. La polverizzazione degli Uffici ha avuto anche ricadute rilevanti anche sulla loro gestione amministrativa, con un eccesivo aggravio dei carichi di lavoro soprattutto nel caso di uffici che svolgono funzioni di stazione appaltante.

Inoltre, la dispersione dei funzionari archeologi in uffici dotati di un numero limitato di posti ha comportato per queste figure specialistiche una maggiore difficoltà nello scambio di esperienze e quindi l’impoverimento di competenze scientifiche e amministrative maturate nel corso degli anni e che l’unicità delle Soprintendenze Archeologia poneva a disposizione dell’intero territorio regionale.

  1. I luoghi della cultura a carattere archeologico

Se la separazione fra tutela e valorizzazione ha pesantemente compromesso l’attività delle Soprintendenze, spesso è mancato anche l’effetto atteso di potenziamento del settore museale.

Per quel che riguarda il personale, è indubbio che il lavoro a stretto contatto con professionalità differenti all’interno di Musei autonomi e Poli ha comportato un momento di arricchimento delle reciproche competenze, consentendo l’armonizzazione dei singoli saperi a beneficio delle potenzialità di valorizzazione degli uffici.

Tuttavia, alla creazione delle nuove strutture non è seguita una riflessione sulla definizione delle figure professionali necessarie all’interno di un museo che costituisse un effettivo superamento della vecchia organizzazione dipendente dalle Soprintendenze. Al contrario, la mancanza di figure di conservatori/curatori e, in generale, di tutte quelle professionalità intermedie (anche amministrative) necessarie per mettere realmente in moto la macchina della valorizzazione porta i direttori dei Musei dipendenti dai Poli regionali, ma anche i funzionari/curatori dei Musei autonomi a svolgere le mansioni più disparate.

In questo contesto riteniamo necessario ribadire l’opportunità che il direttore di musei a carattere prevalentemente archeologico sia un archeologo, al contrario di come si sta verificando in molte realtà (come ad esempio per il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari o per le Grotte di Catullo e la Villa romana di Desenzano), anche nel rispetto della Carta delle professioni museali dell’ICOM che ribadisce per il direttore l’attinenza del proprio curriculum alla specificità del museo.

Inoltre, manca a tutt’oggi una chiara definizione del ruolo e delle mansioni dei direttori dei musei interni ai Poli Museali che subiscono difformità di selezione e assegnazione dei ruoli rispetto ai colleghi responsabili di Area Funzionale delle SABAP, cui economicamente e per funzioni possono essere equiparati.

La divisione tra tutela e valorizzazione ha poi portato, soprattutto (ma non solo) nei casi delle aree archeologiche passate ai Poli, dove al tema della valorizzazione si affianca sempre e costantemente il problema della conservazione e tutela, ad una ondivaga definizione di competenze tra Musei e Soprintendenze, senza una precisa definizione dei ruoli e delle competenze, con un conseguente immobilismo, se non per i casi demandati alla buona volontà dei funzionari di entrambi gli Istituti. Se, come è giusto e si sostiene a livello generale, il museo deve comunque avere un legame e una ricaduta sul territorio, occorre definire responsabilità, compiti, autonomie e sinergie, altrimenti nessuna reale conservazione e valorizzazione saranno possibili.

  1. La necessaria rivendicazione di un ruolo forte e autonomo del Ministero

Ribadiamo la necessità che gli uffici centrali e periferici del Ministero continuino ad esercitare il proprio ruolo di organi tecnici e terzi, nei confronti specialmente delle realtà politico-amministrative territoriali.

In tal senso, non possiamo non citare con preoccupazione l’Accordo preliminare firmato il 28.02.2018 tra il Governo e la Regione Veneto e la successiva proposta di Legge delega avanzata dalla stessa Regione al Ministro per gli Affari Regionali, per l’attuazione di quanto previsto dalla Costituzione (art. 116, co. 3) con la possibile attribuzione all’Ente territoriale di competenze in tutte le 23 materie concorrenti tra le quali è ricompresa anche la valorizzazione dei beni culturali (art. 117, co. 3).

Preoccupano inoltre non tanto le eventuali intenzioni di addivenire anche a forme di intesa e coordinamento (previste comunque dalla Costituzione, art. 118, co. 3) in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, quanto piuttosto l’eventuale trasferimento integrale della stessa materia ai sensi dello stesso art. 116, co. 3.

Considerato che a quella della Regione Veneto stanno facendo seguito analoghe istanze da parte di diverse altre Regioni, fra cui sicuramente la Lombardia (a seguito del referendum sull’autonomia) e il Friuli-Venezia Giulia (Regione a statuto speciale, che ha già pubblicamente manifestato l’intenzione di richiedere le competenze in materia di tutela dei beni culturali), a seconda degli accordi stipulati con le singole Regioni il Ministero vedrebbe trasferite in maniera differenziata su scala nazionale le sue competenze, ad esempio con la cessione in qualche caso dei soli Poli, in altri casi forse anche delle Soprintendenze: ciò comporterebbe sicuramente la fine di qualsiasi uniformità nei livelli di conoscenza, tutela e valorizzazione. Né si può ipotizzare che sia sufficiente l’emanazione, da parte del Ministero, di standard di comportamento (DM 23/12/2015), che finora hanno dimostrato di avere solo valore di indirizzo.

Alla luce di quanto sopra esposto, è chiaro il rischio che sia l’azione di tutela sia l’azione di valorizzazione, siano ulteriormente sottoposte a stress, con un possibile e definitivo tracollo del sistema di controllo del territorio. Non è infatti in alcun modo prefigurabile la portata delle conseguenze che un passaggio di competenze tra Stato e Regione potrebbe avere in tale campo. Richiamiamo, in proposito, l’assoluta delicatezza e fragilità del sistema in essere, la quale costringe –in ogni caso, prima di ogni eventuale riforma strutturale– ad una effettiva analisi dello stato della situazione e delle conseguenze dei cambiamenti.

Non ci sfugge, peraltro, il delicato rapporto che si va instaurando, con modalità differenti da regione a regione, tra gli uffici ministeriali ed alcune Fondazioni come a Ravenna o ad Aquileia; tale rapporto, in alcuni casi, prefigura una sorta di privatizzazione del Bene culturale in consegna alla Fondazione, con una quasi totale estromissione del Ministero dal suo ruolo di guida sia per la tutela che per la valorizzazione dello stesso. La gestione privatistica ha peraltro conseguenze anche sulla complessa gestione del personale (tuttora statale) preposto al Bene culturale e ripercussioni sulla situazione contrattuale dello stesso personale.

Sulla base di quanto sopra esposto, come Associazione di funzionari al servizio dello Stato ci auguriamo di poter essere presto da Lei ricevuti per un momento di confronto.

Ci appare comunque doveroso, nel quadro generale, evidenziare l’assoluta necessità di intervenire, individuando soluzioni che consentano di ridare forza al Ministero ed in particolare al settore archeologico, sia nell’ambito della tutela che della valorizzazione, restituendo ai lavoratori non solo l’orgoglio delle proprie competenze ma anche le condizioni per meglio esercitarle al servizio del patrimonio culturale della Nazione.

Certi della Sua attenzione e in attesa di un gradito riscontro, Le porgiamo con l’occasione anche i nostri più sinceri auguri per le prossime festività.

 

Roma, 24.12.2018

Archeologi Pubblico Impiego (API) – MiBACT

il Presidente, dott. Italo M. Muntoni

 

colosseo

Per un futuro all’archeologia italiana

Lettera aperta al Sig. Ministro dei Beni Culturali dott. Alberto Bonisoli

 

Sono passati ormai due anni dall’approvazione della “seconda fase” della riforma Franceschini, e ben quattro dall’avvio dei primi provvedimenti che dettero avvio al riassetto del Ministero, separando le funzioni di tutela da quelle di valorizzazione, con la creazione dei Musei Autonomi e dei Poli Museali Regionali, afferenti ad una nuova Direzione Generale dedicata. Alla luce di quanto verificato nel corso di questi anni è dunque possibile formulare alcune riflessioni sui suoi effetti nell’ambito dell’archeologia che oggi si ritrova senza una rappresentanza istituzionale qualificata e specifica a livello di tutela nell’ambito delle diverse strutture centrali e periferiche del Ministero.

La valutazione non è positiva, soprattutto nell’ambito degli uffici preposti alla tutela, in quanto si registra un depotenziamento della capacità operativa sostanzialmente derivante da:

 

  • Mancanza di un modello organizzativo interno che tenga in debita considerazione le specializzazioni, a partire, nelle Soprintendenze, dall’attribuzione delle pratiche, che attualmente tendono ad essere assegnate, al di là delle competenze, prevalentemente ai funzionari architetti. Questo consegue alla sostanziale interpretazione della riforma come “incorporazione” delle soprintendenze archeologiche e storico artistiche in quelle architettoniche, che hanno quindi continuato ad operare in continuità con i modelli organizzativi precedenti. I problemi di attribuzione della pratica, con conseguenti ritardi o addirittura omissioni nell’attribuzione ai funzionari archeologi, come riconosciuto dalla recente circolare n. 26/2018 della DG ABAP, sono alla base di una minore incisività nella tutela archeologica tanto da registrare una riduzione del numero degli scavi per archeologia preventiva e d’emergenza. Sono necessarie regole certe finalizzate a chiarire riti e procedure amministrative tra competenze diverse.

 

  • La nuova area funzionale Archeologia, che assorbe i compiti delle preesistenti Soprintendenze di settore, si trova quasi ubiquamente priva delle strutture di supporto, sia in termini di sostegno tecnico (Uffici tecnici dedicati) sia relativamente agli aspetti scientifici (biblioteche, laboratori di restauro, fotografici e grafici), senza contare la perdurante emergenza relativa ad archivi e depositi tutti strumenti di lavoro insostituibili per l’ordinario esercizio della tutela archeologica, per la quale la conoscenza e la conservazione dei beni sono indispensabili. Va aperto un confronto per l’utilizzo congiunto delle strutture esistenti, attualmente smembrate tra Poli e Soprintendenze, sul loro eventuale potenziamento o incremento, coscienti che nessun progetto di riorganizzazione può essere attuato a costo zero. Particolarmente delicato il tema degli archivi, per i quali si pone il problema pressante dell’accessibilità (che dovrebbe essere garantita quanto meno in base alle norme che regolano l’archeologia preventiva) e la necessità di difenderne l’unitarietà, garantita dalle norme di primo livello ma messa in discussione dalle recenti disposizioni della DG Archivi. Risulta evidente peraltro che lo squilibrio numerico tra archeologi/storici dell’arte, da un lato, e architetti dall’altro, non consente di adempiere alla forma di tutela “olistica” immaginata e alla base della fase 2 della riforma.

 

  • Un ulteriore aspetto riguarda il destino dei musei archeologici. Con la separazione dei Musei dalle Soprintendenze, i Musei Archeologici Nazionali e le aree archeologiche strutturate hanno perso in molti casi il contatto organico con il territorio e gli scavi. Per quanto oggigiorno molto si parli di musei multiculturali e con una visione di apertura internazionale, non possiamo non considerare come i musei archeologici (Nazionali, ma anche Civici) costituiscano il naturale riferimento espositivo degli scavi condotti nelle città e sui territori nei quali si trovano ad operare e il collegamento dei musei con il loro territorio rientri tra gli obiettivi generali indicati dal Ministero nella gestione dei musei. Attualmente una non chiara definizione dei ruoli, delle competenze e dei processi decisionali e attuativi per e sul territorio rischia di creare un diaframma sempre più netto tra tutela e valorizzazione, la cui ovvia e legittima sovrapposizione in taluni casi è lasciata alla sola iniziativa e “buona volontà” dei funzionari che lavorano nei diversi Istituti, piuttosto che a legittime e codificate procedure interne al Ministero.

Inoltre, il passaggio di alcune aree archeologiche e musei ai Poli Museali e, di contro, il permanere alla competenza delle Soprintendenze di numerosissimi aree e monumenti archeologici sparsi sul territorio, non strutturati in parchi veri e propri e quindi inevitabilmente non destinati a un vero e proprio programma di valorizzazione, ne rende le sorti ancora più incerte anche per la scarsità di risorse per la manutenzione e il restauro , creando inevitabilmente il delinearsi di luoghi di cultura di serie A e B.

Permane la sensazione di una forte contraddizione tra l’intento unificatore della riforma, per meglio rispondere alle esigenze del territorio, e la scelta di separare gli istituti di tutela e valorizzazione. Una capacità di intervento globale può partire solo da una forte connessione tra tutti gli elementi della filiera: conoscenza, ricerca, tutela, conservazione, valorizzazione e gestione.

Si ritiene quindi utile avviare un confronto che porti a tale visione globale e che possa anche prendere in considerazione la riconnessione delle competenze di tutela e valorizzazione per quei musei e aree archeologiche non autonomi ora inseriti in Poli museali estremamente eterogenei.

 

  • Queste oggettive disorganizzazioni hanno, inoltre, incisive e drammatiche ricadute sulla componente professionale privata, sia in forma di libera professione che di impresa, che dalla corretta e diligente gestione di tutela, ricerca e valorizzazione in buona parte dipende e che negli anni ha svolto notevoli investimenti in formazione e tecnologie. Infatti, come anticipato, da un lato la minore incisività nella tutela archeologica registra una riduzione del numero degli scavi per archeologia preventiva e d’emergenza, dall’altro i musei di serie B non ricevendo adeguate, o per nulla, sovvenzioni, sono costretti a ridurre, nei casi fortunati, o cancellare del tutto attività di ricerca, promozione e valorizzazione adeguate, campi in cui la componente professionale privata ha ampiamente apportato negli anni il proprio contributo.

 

  • La recente pubblicazione del D.M. 154/2017 sulla qualificazione degli operatori economici abilitati ad eseguire i lavori sui BBCC tutelati, ha portato nuovamente in evidenza il grave ed ormai annoso problema della mancata pubblicazione del regolamento attuativo della legge 110/2014 riguardante, fra gli altri, il profilo professionale e formativo degli archeologi e la tenuta del relativo elenco presso il MiBACT. Preso atto dell’ampia consultazione effettuata al riguardo dal MiBACT e durata più di due anni, con la partecipazione di tutte le associazioni di categoria, di impresa e delle consulte universitarie, si chiede, vista l’urgenza di dare una regolamentazione al settore, che venga emanato il relativo Decreto, il cui iter amministrativo è ormai concluso ed essendo intervenuta anche l’approvazione del MIUR. La pubblicazione del decreto garantirebbe chiarezza sugli inquadramenti professionali del personale operante nel settore e risolverebbe molte conflittualità che attualmente si registrano sempre più frequentemente sia nelle attività ordinarie che negli appalti pubblici.

 

Le Associazioni:

 

API – Archeologi Pubblico Impiego MiBACT

ARCHEOIMPRESE

ASSOTECNICI – Associazione Nazionale dei Tecnici per il Patrimonio Culturale

CIA – Confederazione Italiana Archeologi

CNA coordinamento archeologi

CNAP – Confederazione nazionale Archeologi Professionisti;

FAP – Federazione Archeologi Professionisti;

Mi Riconosci? Sono un Professionista dei Beni Culturali

LEGACOOP produzione e servizi

 

Bonisoli 2

 

Considerazioni sui Responsabili d’Area nelle SABAP

Diciamo la verità. Seppur impegnati ad analizzare i risvolti della procedura di mobilità appena iniziata, da tempo sentiamo la necessità di commentare l’avvenuta pubblicazione di un documento ministeriale che spiegasse urbi et orbi compiti e funzioni dei responsabili delle aree funzionali nelle Soprintendenze, aree introdotte come novità assoluta nella faticosa riorganizzazione del Ministero, ed in particolare nella cosiddetta “fase 2” iniziata col D.M. 44/2016. Il documento in esame è la circolare 22 della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, successivamente integrata dalla 27.

 

Due parole sugli ultimi 10 mesi…

In effetti, sono passati molti mesi, dopo che gli organi centrali del Ministero hanno ordinato ai nuovi Soprintendenti unici (in carica dall’11 luglio) di nominare -previa selezione interna- i responsabili di area previsti dal DM 44/2016, prima di conoscere compiti e funzioni dei responsabili d’area. Giova ricordare che i Soprintendenti, vista l’assoluta mancanza di indicazioni sui compiti e le funzioni dei futuri responsabili, hanno di fatto interpretato in modo autonomo la natura di tale responsabilità. E altro non potevano fare. Ciò, però, ha comportato situazioni palesemente differenti in ogni Soprintendenza, sulle quali non ci dilungheremo, se non per ricordare che, in taluni casi, gli uffici non disponevano di personale sufficiente a coprire gli incarichi di responsabili delle 7 aree previste, in altri sono stati affidati gli incarichi a prescindere dal profilo tecnico, in altri ancora non sono stati affidati a causa di “interpello” deserto (ad esempio, in mancanza proprio di indicazioni su compiti e responsabilità amministrative, gli archeologi delle neonate 3 soprintendenze venete hanno scelto di non partecipare all’interpello, di fatto aprendo la strada per l’avocazione a sé del ruolo da parte dei 3 soprintendenti.

Tuttavia, pur in questa fluida situazione, i responsabili di area insieme ai loro colleghi hanno lavorato, in modo anche decisamente faticoso, per tentare di garantire quella continuità amministrativa tanto voluta e sbandierata dall’Amministrazione centrale dopo l’11 luglio. E per garantire un generale supporto (forse anche emotivo…!) ai vecchi-nuovi Soprintendenti, di fatto diventati “olistici” per decreto.

 

La circolare 22, la 27 e i nuovi orizzonti

Lo scopo della circolare 22 è di fornire il contenuto su cui lavorare agli attuali e ai futuri responsabili delle aree funzionali; tuttavia, appare subito chiaro, fin dalla prima lettura, che la circolare nasce zoppicante, poiché -a fronte delle indicazioni contenutistiche- specifica bene che la definizione dei compensi è ancora in discussione e dovrà essere sottoposta a contrattazione sindacale su base nazionale. Ma quindi: si applica subito oppure no? E la risposta -secondo logica- dovrebbe essere NO. Eppure, con la successiva circolare 27 (in particolare si legga il punto 5), il Ministero ritiene subito operative le nuove disposizioni!

Tornando alla 22, l’obiettivo è comunque dichiarato: “al fine di rendere omogeneo il nuovo modello organizzativo in tutta l’amministrazione periferica afferente alla Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio”, vengono precisati i compiti e le funzioni dei responsabili di area, “sentite le OO.SS. al tavolo nazionale del 13 aprile 2017”.

E qui cominciano ad emergere dei dubbi: possibile che le OO.SS. non abbiano nulla da dire in merito alla palese contraddizione tra l’aver dettagliato in modo anche pesante alcuni compiti e l’assoluta mancanza di certezze sui compensi economici e sul possibile conflitto tra le nuove “figure professionali” e i profili previsti dal mansionario in vigore nel Ministero?

Inoltre: possibile che ancora una volta, pretendendo di “rendere omogeneo il modello organizzativo”, vengano tenuti in disparte osservazioni, suggerimenti e quant’altro forniti dai tecnici del Ministero che quotidianamente si confrontano con i problemi di organizzazione del lavoro?

Comunque sia… sappiamo ora che “l’articolazione in aree funzionali ha lo scopo di supportare il Soprintendente nell’esercizio delle funzioni di tutela nel territorio di competenza” e che tale organizzazione “per aree tematiche” integra la “tradizionale organizzazione topografica”; tuttavia pare che non ci si renda conto che invece di integrare l’organizzazione topografica e le procedure amministrative, in realtà quella nuova tende forse più a creare dei comparti stagni. Ma sicuramente ci sbagliamo noi…

 

Veniamo a quelli che, secondo noi, sono aspetti decisamente problematici:

 

  1. In generale, l’assoluta novità è che il responsabile di area -salvo disposizione diversa del Soprintendente- sarà anche Responsabile del Procedimento di tutte le istruttorie della sua area, di fatto assumendo oneri e onori. Ma soprattutto oneri; per questo, i compensi previsti (che peraltro dovrebbero essere retro-attivi…, visto il ruolo di “responsabilità” iniziato a fine agosto 2016 in molte Soprintendenze) dovranno garantire una giusta remunerazione, non solo per i carichi di lavoro generale, ma anche per compensare le spese delle coperture assicurative che i responsabili di area dovranno sostenere. Ci si chiede in quale modo i responsabili d’area potranno effettivamente svolgere il ruolo di Responsabile del Procedimento per tutte le istruttorie dei funzionari dell’area di riferimento?! a fronte delle pesanti carenze di organico, che permarranno anche dopo il completamento del concorso in atto, come potranno i responsabili d’area mantenere i propri incarichi territoriali?

Insomma, nello stato in cui versano attualmente le Soprintendenze ci pare persista la mancanza delle minime garanzie per assumere o comunque sostenere questa responsabilità.

 

  1. Il testo della circolare entra poi nel merito delle funzioni dei vari responsabili, che sarebbe troppo lungo ed inutile elencare qui in dettaglio. Salta tuttavia agli occhi la decisa sproporzione tra i compiti del responsabile dell’area Organizzazione e Funzionamento e gli altri; pur supportato dai “responsabili delle unità organizzative amministrative dell’ufficio” (se presenti…!), dovrebbe curare tutte le procedure di gestione generale, dalle pulizie agli atti dell’Art Bonus, dal coordinamento del centralino e portineria alle interrogazioni parlamentari.

Ci chiediamo davvero quali siano state le informazioni in possesso di chi ha concordato il testo della circolare in merito alla reale situazione organizzativa degli uffici.

Peraltro ci sfugge il motivo per il quale, fra i vari incarichi, il responsabile di area sopra descritto non abbia alcuna voce in capitolo sull’importantissimo aspetto della contabilità generale degli uffici (aspetto che è letteralmente sparito dalla circolare; che sia un modo sottile per dire che gli uffici non avranno più una loro contabilità?).

 

  1. Per quanto concerne, invece, le funzioni dei responsabili delle aree tecniche in generale (ma bisogna prima augurarsi che via sia il personale in grado di coprirle tutte…), i compiti appaiono più equilibrati fra di loro e abbastanza definiti, anche se permangono alcuni dubbi. Ad esempio: i responsabili di area hanno anche la titolarità dei rapporti con gli esterni per le tematiche relative alla propria area di competenza? Se sì, di che tipo? Inoltre, se hanno il compito di coordinarsi con i responsabili di altre aree per concludere un’istrutturia di tipo misto, chi ha la titolarità della responsabilità del procedimento? Noi speriamo che le risposte dei dirigenti non siano discrezionali ma il più possibile omogenee sul territorio. Immaginiamo che al Soprintendente rimanga la facoltà di decidere l’interesse prevalente e dunque la titolarità di cui sopra.

 

  1. A fronte delle competenze che gli vengono attribuite e soprattutto della grande responsabilità di cui sopra, un dubbio permane insoluto: in situazioni particolarmente delicate e complesse quale sarà l’effettivo peso del giudizio tecnico di un coordinatore rispetto alle scelte del Dirigente, ovviamente nei settori non di specifica competenza tecnica del Soprintendente? Qualora si dovesse arrivare ad una divergenza di opinioni profonda e non sanabile, la scelta rimarrebbe in capo al Soprintendente? O potrebbe invece essere possibile per il coordinatore d’area chiedere l’espressione in merito del CO.RE.PA.CU. o, meglio ancora, trattandosi di problematiche di carattere tecnico, della Direzione Generale ed in particolare del Servizio di riferimento specifico?

 

  1. Ancora, non avremmo mai voluto leggere, in chiusura dei compiti di ciascun responsabile d’area tecnica, la formula: “ (Assicura il coordinamento per…) ogni altro compito affidato alla Soprintendenza in base al Codice e alle norme vigenti in relazione all’area tecnica di competenza”: espressione generale quanto basta sia per contraddire il proposito stesso della circolare sia per legittimare ogni più ampia interpretazione della formula stessa.

 

  1. Una cosa è certa, o così ci sembra perché ben conosciamo il contesto in cui lavoriamo: i responsabili delle aree di tipo tecnico, ed in particolare architetti, archeologi e storici dell’arte, difficilmente potrebbero sostenere anche il carico di responsabilità della tutela di un determinato comparto territoriale, come attualmente stanno invece facendo. Il territorio verosimilmente dovrebbe essere lasciato agli altri funzionari… In presenza di una macchina amministrativa in perfetta efficienza, completa nei suoi organici, fornita di mezzi e risorse adeguati, i Soprintendenti e i responsabili di area potrebbero certamente avvalersi del contributo di altro personale, specificamente individuato (in qualità di sub-coordinatore o di altro) per la gestione di temi specifici: pensiamo, ad esempio, alla necessità imposta dal recente DPR 31/2017 (Semplificazione delle procedure di autorizzazione paesaggistica) di individuare un referente unico delle procedure semplificate; pensiamo altresì agli attuali incarichi di coordinamento per i vari settori cronologici dell’archeologia o per l’archeologia subacquea o per i siti Unesco (ma analoghi incarichi esistono nel comparto della tutela monumentale e paesaggistica).

Tant’è. Ripetiamo: tutto si potrebbe fare.

Ma non in questo momento storico. Non in un momento in cui gli uffici annaspano alla ricerca di personale, mezzi, risorse. Non ora, senza aver concluso la procedura di mobilità appena iniziata, senza aver concluso l’assunzione dei vincitori del concorso in essere.

 

  1. Gli interpelli svoltisi in tutta fretta alla fine di agosto dello scorso anno sono stati effettuati senza certezze né sui “contenuti” degli incarichi che si andavano ad attribuire né sulle effettive dotazioni organiche di ciascun ufficio; rispondevano ad esigenze di emergenza e dovevano esaurirsi all’inizio di questo anno, se non fosse stato per una proroga de imperio certamente motivata dal perdurare della situazione di “temporaneità” che continua a contraddistinguere l’organizzazione degli uffici. La circolare 27 ha stabilito che, qualora le condizioni lavorative di cui alla circolare 22 non siano accettate dagli attuali responsabili d’area, essi dovranno formalizzare al Soprintendente la propria rinuncia all’incarico. Sicuramente chiaro; ci piacerebbe tuttavia sapere se a questi responsabili d’area “rinunciatari” sarà comunque fornita una indennità -come sarebbe giusto- per il lavoro fin qui svolto.

 

  1. Sarebbe opportuno, inoltre, che venissero meglio definiti i criteri di selezione degli stessi, in modo da rendere le procedure omogenee sul territorio nazionale. Innanzi tutto, fra i criteri tuttora validi (ed esplicitati in occasione del primo interpello, con circolare 10-2016 della stessa Direzione Generale), ci sembra doveroso correggere quanto meno il punto 1, nel quale è richiesto di indicare l’esperienza e le competenze professionali con particolare riferimento all’area richiesta e l’eventuale possesso del profilo di settore. Non si capisce come si possano utilizzare i termini particolare al posto di esclusivo ed eventuale al posto di effettivo, visto che l’intento dichiarato è quello che i responsabili debbano essere una figura specifica di supporto tecnico-scientifico al Soprintendente per ogni area individuata.

Ci permettiamo inoltre di osservare che, vista la complessità dei ruoli e dei carichi di responsabilità, sarebbe opportuno che la selezione non fosse lasciata in capo al solo Soprintendente, ma che venisse creata una apposita commissione composta da Soprintendenti afferenti ai diversi settori tecnici (archeologia, architettura/paesaggio, storia dell’arte)

 

In conclusione

Tutto ciò premesso la nostra associazione chiede urgenti chiarimenti a codesta DG in merito a:

 

  • il modo in cui i coordinatori d’area dovranno effettivamente svolgere il ruolo di Responsabile del Procedimento di tutti i procedimenti relativi alla specifica area di competenza sul territorio;
  • le modalità di risoluzione di eventuali importanti e insanabili divergenze tra il parere tecnico del coordinatore e del Soprintendente di cui sopra;
  • criteri e modalità di selezione dei responsabili d’area: in particolare sulla necessità di possedere il profilo professionale per l’area richiesta;
  • tempistiche certe per l’accordo sulla retribuzione economica nonché adeguatezza della stessa al carico di responsabilità.

 

Alla fine non possiamo che chiederci: era veramente necessario tutto ciò? A un anno dall’entrata in vigore delle Soprintendenze uniche, la macchina burocratica stenta ancora ad entrare a regime e, invece che procedere verso un’auspicata semplificazione, si rende necessario rivedere l’articolazione degli uffici con soluzioni improbabili e problematiche. Questo perché, a fronte del tanto decantato “olismo”, le competenze necessarie a dare sostanza all’atto amministrativo non possono che essere tecniche e specialistiche.

Non conveniva forse che i responsabili di area fossero figure dirigenziali intermedie, adeguatamente riconosciute sia sul piano professionale che sul piano economico ?

Continuando ad auspicare un generale ripensamento della riforma, chiudiamo questo nostro modesto contributo augurando buon lavoro a tutti coloro (Soprintendenti e Responsabili di Area) che vorranno caparbiamente continuare a coordinare il coordinabile in questa nebbia persistente che offusca il nostro mestiere.

 

 

10 luglio 2017                                                                                  Archeologi Pubblico Impiego (API) – MiBACT

Riforme giustiziate

E’ deflagrata come una bomba, la notizia dell’annullamento, da parte del TAR del Lazio, della nomina di cinque dei venti direttori dei musei autonomi voluti dalla Riforma Franceschini. Fin dalle prime ore di ieri articoli, giudizi e commenti si rincorrono sulla stampa e sui social media.  Al centro della discussione la nazionalità dei dirigenti colpiti dal provvedimento. Molti gridano allo scandalo: l’Italia provincialotta rigetta con cavilli da azzeccagarbugli l’apporto di competenti studiosi internazionali, che in soli due anni hanno fatto (pare) risorgere i musei a loro assegnati.

In questo fiume di parole, indignazione e urla di scandalo, stupisce in primo luogo che molti (ed in primo luogo giornalisti e politici) evidentemente commentino le sentenze senza leggerle: altrimenti saprebbero che, delle sette nomine annullate, cinque riguardano direttori italiani e che, oltre alla questione dei requisiti di cittadinanza previsti dalla legge, ad essere in discussione sono soprattutto le modalità con cui si è svolta la selezione, che non rispondono ai criteri di trasparenza anch’essi richiesti dalla legge. Quale che sia il giudizio sulla riforma e sulla politica culturale di questo Governo, crediamo che non possa essere contestato il principio che gli atti amministrativi devono essere conformi a quanto previsto dalla legge; in caso contrario verrebbero a mancare i fondamenti stessi dello Stato democratico.

Come i giudici hanno rilevato, il TAR è chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità degli atti amministrativi sulla base delle norme di legge, così come i pubblici ufficiali quelle norme sono tenuti a rispettarle e ad applicarle. Non serve a niente riformare il TAR (come hanno prontamente proposto lungimiranti ministri) né l’Amministrazione se non si cambiano le leggi che l’uno e l’altra sono costituzionalmente chiamati ad applicare.

Quella che oggi si tenta maldestramente di nascondere con la cortina di livorosi commenti e reazioni scomposte da parte di politici anche di primissimo piano, aggrappandosi al pretestuoso tema del rigetto dei direttori stranieri (dei quali, ribadiamo, solo uno su sei è stato per adesso toccato dalla sentenza), è una verità che da più di un anno come API cerchiamo di denunciare in tutti i modi: questa riforma è stata concepita male, con criteri poco trasparenti e strumenti giuridici evidentemente discutibili. Se si vogliono cercare i responsabili di quello che oggi è sotto gli occhi di tutti, non ai giudici del TAR bisogna rivolgersi, ma ai vertici tecnici e politici del Ministero.

Per chi vuole andare alle fonti, ecco i link alle due sentenze:

https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/AmministrazionePortale/DocumentViewer/index.html?ddocname=6QJGTLSU2PQXHSNQTP2HE535WE&q=

https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/AmministrazionePortale/DocumentViewer/index.html?ddocname=NUSOUJG3GTIQ4ZACZYHDQADC64&q=

Un concorso per quale Ministero?

Finalmente è arrivato: il nuovo concorso, lungamente annunciato, è stato varato ieri dagli uffici del Ministero. Adesso può finalmente partire la lunga maratona di studio per i tanti che aspirano a mettere le proprie professionalità al servizio del MiBACT, mai come in questo momento di profondo cambiamento bisognoso di figure competenti e motivate per rinforzare la propria traballante struttura.

In un momento di totale rivoluzione tuttavia, a guardare le qualifiche e i numeri richiesti dal concorso, sembra quasi che gli uffici che hanno lavorato al bando abbiano operato su di un’isola deserta, senza alcuna comunicazione con l’esterno. La selezione infatti appare messa a punto  in base ai fabbisogni del MiBACT precedenti la riforma. Se il numero degli archeologi a prima vista si mostra congruo, stupisce la loro concentrazione nel Lazio (ben 22 unità di personale su 90 messe a concorso); i territori invece sembrano lasciati in secondo piano, con alcune regioni fortemente penalizzate, nonostante siano in procinto di essere colpite pesantemente dallo “spacchettamento” delle Soprintendenze Archeologia e dal passaggio di competenze ai poli museali. Mancano del tutto indicazioni sugli uffici di assegnazione (Soprintendenze? Musei?): un segno forse dell’incertezza che regna dentro il Ministero sulle dotazioni organiche dei nuovi Istituti? Il nostro timore è che in prospettiva questa incertezza si trasformi in un pesante squilibrio di risorse umane dalle Soprintendenze ai Musei, con seri problemi per la tutela archeologica territoriale.

Del resto, nel settore storico-artistico i soli quaranta posti da funzionario messi a concorso denunciano l’intenzione di marginalizzare sempre di più questa figura: dobbiamo forse aspettarci una sparizione dei tecnici dal territorio ed una loro concentrazione nelle strutture museali?

Ma l’elemento più preoccupante è rappresentato dall’assordante assenza degli amministrativi: la riforma così come è stata concepita nelle sue due fasi prevede un proliferare di uffici, con la nascita ex nihilo di Poli museali e Musei autonomi in quantità, per il cui funzionamento servirebbero impiegati e funzionari amministrativi in misura enormemente maggiore rispetto a quella attuale, visti anche gli imminenti, massicci pensionamenti.

Senza l’immissione di forze nuove dentro le segreterie, gli uffici personale, i protocolli, la macchina ideata da Franceschini rischierà di arenarsi ancor prima di partire. Con buona pace dei nuovi cantori del petrolio culturale e della tutela olistica.

Comunque, auspichiamo che le procedure concorsuali siano espletate nei tempi indicati… per accogliere il prima possibile i nuovi colleghi!

In bocca al lupo a tutti!

Montanari e il Ministero della Bellezza

API MiBACT ha più volte espresso forte preoccupazione per l’indirizzo che si sta imprimendo a tutela, gestione e valorizzazione dei beni culturali italiani. Una preoccupazione che trova ulteriore conferma nelle dimissioni del Prof. Tomaso Montanari dalla commissione ministeriale consultiva che ha il compito di vagliare le proposte di cessione di beni culturali come pagamento delle imposte, rassegnate per rispetto alla propria onestà intellettuale e coerenza professionale. L’incarico, per stessa affermazione del prof. Montanari (fonte: http://www.travelnostop.com/news/beni-culturali/montanari-lascia-mibact-non-presto-mio-lavoro-a-propaganda_133983), si andava rivelando strumento per mera propaganda politica e non vero supporto alla tutela del patrimonio culturale della nazione.

Attraverso la riforma in atto e le molte esternazioni pubbliche delle più alte cariche politiche del nostro Paese, il MiBACT non sembra più avere come fine primario la salute e il benessere del nostro immenso patrimonio culturale. Risulta infatti manifesto come la riforma tenda a immobilizzare l’efficacia di tutti gli aspetti della tutela territoriale (attraverso l’appesantimento della catena di comando e lo svilimento delle competenze scientifiche di soprintendenti e funzionari nelle soprintendenze uniche, l’introduzione dell’istituto del silenzio -assenso e la sottomissione delle soprintendenze alle prefetture), depauperandola sempre più di risorse, tutte destinate ai grandi progetti di valorizzazione. D’altro canto le dichiarazioni del Ministro e del Presidente del Consiglio che si leggono sui giornali sembrano indirizzate verso una considerazione del patrimonio culturale quale mero prodotto sottoposto alle leggi del marketing. Il fatto che si parli sempre più di “bellezza” e sempre meno di “cultura” per indicare il nostro patrimonio, che si voglia decidere sulla salute e sulla valorizzazione dello stesso non sulla base di considerazioni tecniche e scientifiche ma sul … “televoto”,  sono elementi che indicano una preoccupante visione del bene culturale quale prodotto di consumo  e non quale risorsa culturale per il Paese…un patrimonio insomma per il quale il termine “valorizzazione” rischia di essere sempre più interpretato come “dare un valore economico” e non come “utilizzo del bene per creare valore per un territorio”.

Per questo, ancora una volta API-MiBACT rivendica il ruolo e il valore della cultura e di chi opera con serietà e professionalità per la salvaguardia della stessa.

La Bellezza al Governo

Prima serata televisiva, notizia straordinaria, applausi a scena aperta: l’annuncio dato dal Presidente del Consiglio durante la puntata domenicale di “Che tempo che fa” dell’8 maggio è una bomba, per chi si occupa di beni culturali. 150 milioni da investire su beni e luoghi della cultura da restaurare, scavare o ristrutturare sono una cifra considerevole, non c’è che dire, soprattutto a fronte di una situazione che negli ultimi anni ha visto ridursi al lumicino i fondi ordinari messi a disposizione dal Ministero. Una risposta prontissima del premier alle critiche arrivate dalla piazza con la manifestazione di Emergenza Cultura, tenutasi appena un giorno prima.

Dunque, la notizia non può che essere accolta con favore: ossigeno quanto mai necessario per un Ministero sfiancato dai tagli, ancora alle prese con una riforma incompiuta (quella del 2014) e una appena varata.

Ma forse è proprio per alleggerire il carico di lavoro ai poveri funzionari e dirigenti del MiBACT, impegnati a sopravvivere alla disarticolazione degli uffici causata dalle riforme suddette, che il Governo ha elaborato una nuova formula per l’esercizio della tutela. Sì, perché d’ora in avanti non servirà che le Soprintendenze producano complicate e noiose relazioni tecnico-scientifiche, studi di fattibilità, progettazioni, elenchi di priorità. Da adesso in poi sarà direttamente la gente a scegliere quale monumento salvare e quale lasciare a marcire nel degrado. Basta noiose competenze tecniche: sarà l’indice di gradimento espresso dal “televoto” dei beni culturali a decidere. È già pronta una casella di posta elettronica: scrivete dunque a bellezza@governo.it. Sì, avete letto bene: le segnalazioni verranno raccolte direttamente dalla Presidenza del Consiglio. Non fosse mai che al Ministero dei Beni Culturali qualcuno avesse un rigurgito di competenza scientifica per indirizzare le scelte…

Per il lavoro corrente dei tecnici, del resto, rimarrà la solita manciata di soldi con cui far fronte alla tutela quotidiana: 35 milioni circa, stando ai dati 2015, spalmati su tutti i settori (archeologia, storia dell’arte, architettura, paesaggio, archivi, biblioteche…) con cui occuparsi di manutenzioni, restauri, cantieri di scavo, ma che servono anche a pagare bollette e pulizie di musei e uffici. Una miseria, se raffrontata alle necessità del patrimonio culturale della Nazione.

Ma si sa, val più l’annuncio di una sera che il lungo e oscuro lavoro di chi la tutela si ostina a farla ogni giorno.