Da Archeologo ad Archeologo, nella ricerca di un dialogo possibile. Lettera aperta ai professionisti, alle imprese e alle società di archeologi.

 

Cari Colleghi,
abbiamo pensato di indirizzarvi queste righe perché riteniamo che in una fase così difficile e complicata, come quella che sta affrontando oggi l’archeologia italiana, ci sia una grande necessità di chiarezza. E ci rivolgiamo innanzitutto a chi, tra tutte le diverse componenti dell’archeologia operanti in Italia, insieme a noi, è quotidianamente coinvolto nell’attività di tutela del patrimonio archeologico, in un rapporto di profonda interdipendenza, seppure in una condizione professionale differente. Vi sottoponiamo il nostro punto di vista, non tanto per ribadire una posizione predeterminata, quanto per provare ad avviare quel confronto costruttivo che fino a oggi sembra essere mancato.

1. Permetteteci innanzitutto un piccolo excursus storico, utile secondo noi a chiarire proprio quell’aspetto di interdipendenza menzionato.
La cosiddetta archeologia professionale nasce in Italia quando – agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso – profondi cambiamenti sembravano attribuire sorti magnifiche e progressive al futuro della nostra disciplina: alla sperimentazione e all’applicazione delle teorie e delle metodologie diffusesi soprattutto in Gran Bretagna qualche decennio prima si accompagnava, infatti, un notevole ampliamento del campo di indagine sia dal punto di vista cronologico (archeologia post-medioevale e archeologia industriale), che da quello dei materiali studiati (recupero sistematico dei reperti paleobotanici e archeozoologici). Nel frattempo il numero dei funzionari delle Soprintendenze era cresciuto e gli uffici si trovavano per la prima volta nelle condizioni di monitorare i territori di competenza in maniera più capillare.
Il maggior controllo esercitato sugli scavi di emergenza e la maggiore qualità metodologica che essi assunsero comportarono necessariamente la progressiva sostituzione della manovalanza non specializzata prima utilizzata dalle imprese edili, con archeologi, la cui presenza costante sui cantieri – come singoli o organizzati in imprese a carattere cooperativo o societario – rappresentò un validissimo apporto professionale a fianco del personale tecnico-scientifico delle Soprintendenze che, seppure rimpinguato, non sarebbe stato in grado di assicurare una presenza costante sui cantieri che si andavano continuamente moltiplicando.
Non è un caso se furono proprio le Soprintendenze a incentivare e sostenere questa piccola
“rivoluzione” nella gestione dell’archeologia italiana, mentre più scettico – se non ostile – fu allora una parte significativa di tutto il mondo accademico.
2. Cosa è successo poi? Sarebbe forse più appropriato dire cosa non è successo, dal momento chenessuna normativa è intervenuta a fornire indirizzi e linee guida utili ad affrontare la grande massa degli scavi archeologici diretti dalle Soprintendenze, ma con finanziamenti esterni, anche nelle situazioni in cui – come per le opere pubbliche – tale prassi di intervento ha avuto poi con il tempo una legittimazione (ma senza stringenti indicazioni, appunto, per quanto concerne la parte esecutiva) nell’ambito della normativa
sull’archeologia preventiva. Ugualmente nulla è stato fatto per fissare parametri e regole relative ai profili professionali, e soprattutto per regolamentare un “libero mercato” nel quale sempre di più ha vinto chi ha proposto il prezzo più vantaggioso a discapito della qualità della prestazione, venendo incontro all’interesse dei committenti a ridurre i costi e ad accelerare i tempi.
La concorrenza sempre più selvaggia e la diminuzione incontrollata dei costi del lavoro archeologico hanno pertanto avuto conseguenze non solo sulle condizioni di vita e sullo status economico e professionale degli operatori, ma anche, inevitabilmente, sulla qualità degli interventi di scavo. Talvolta, infatti, le condizioni economiche imposte conducono alcune imprese, per rientrare nei costi, a una approssimativa e frettolosa conduzione dei cantieri o, peggio ancora, a non poter produrre, per mancanza di una necessaria copertura economica, una documentazione di scavo a livelli accettabili. E questo va da un lato a discapito della ricerca e della tutela, ma dall’altro a discredito anche di coloro che operano invece con la massima professionalità e il cui impegno interpretativo costituisce il presupposto irrinunciabile di ogni valutazione e/o decisione su situazioni spesso complesse e delicate.
3. Siamo consapevoli che le problematiche, apparentemente diverse, del riconoscimento professionale ed economico di tutti coloro che operano nel campo dei beni archeologici, della presenza di regole e procedure chiare e condivise, della qualità scientifica del lavoro e della documentazione e dell’efficacia dell’azione di tutela, sono in realtà facce della stessa medaglia ed è per questo che come funzionari avvertiamo l’esigenza di provare a superare incomprensioni e irrigidimenti reciproci, anche in virtù del fatto che – grazie al ricambio generazionale ormai in atto nel Ministero – molti di noi sanno bene che cosa significhi lavorare sui cantieri di scavo essendo stati essi stessi “dall’altra parte della barricata”.
Oltre allo sforzo di disegnare un codice deontologico comune basato su regole di trasparenza e su principi etici condivisi, ecco allora quale può essere il nostro obiettivo comune: considerare il superamento di questa situazione di deregulation come presupposto imprescindibile per il riconoscimento della dignità professionale di tutti, per una maggiore efficacia dell’azione di tutela sul patrimonio archeologico, oltre che per rendere più incisivo e più “comprensibile” il nostro ruolo nei confronti di una società e di un’opinione pubblica che – non riuscendo a staccarsi dall’immagine dell’archeologo “cacciatore di tesori” – finisce per non comprendere per nulla una professione molto complessa e sfaccettata, che viene spesso percepita come un ostacolo alle istanze di progresso del Paese.
Rimarranno certo le peculiarità e i problemi specifici legati ai diversi ruoli che ricopriamo, e dal nostro punto di vista devono continuare ad avere pieno diritto di cittadinanza anche le rivendicazioni di carattere professionale che ciascuno di noi potrà portare avanti con le rispettive associazioni di riferimento. Ma una battaglia comune affinché l’archeologia italiana abbia riconosciuta una dignità complessiva anche attraverso una serie di norme che ne regolino l’esercizio da parte di tutti i soggetti coinvolti, è più che mai urgente e necessaria.
4. E perché allora scegliere di non aderire alla proposta di coordinamento di tutti gli archeologi italiani avanzata e discussa nel corso di questi ultimi due anni, pur avendo convintamente partecipato ad iniziative promosse da tutte le associazioni in difesa della professionalità degli archeologi (come quella dopo il tragico incidente ferroviario in Puglia del Luglio scorso) o di confronto sul futuro dell’archeologia (come nel caso della XIX BMTA di Ottobre scorso)?
Innanzitutto per una questione di metodo. E’ mancata a nostro avviso una fase di confronto aperto tra le componenti interessate quale base che consentisse a tutti di presentare le proprie posizioni per giungere solo in un secondo momento a definire gli aspetti organizzativi dell’associazione. Il gruppo che finora ha partecipato alla proposta di coordinamento ha anteposto le questioni di carattere organizzativo a quelle ben più sostanziali relative ai contenuti, cominciando da subito a discutere di organismi dell’associazione, di grado di rappresentanza delle diverse componenti, di formule statutarie, … Noi crediamo, al contrario, che, soprattutto visto il passato di divisioni e di mancanza di dialogo, sarebbe stato necessario un percorso più trasparente che partisse dal confronto sui temi che veramente ci accomunano, sui principi etici connessi alla nostra professione, sulle problematiche che riteniamo più urgente affrontare; un confronto insomma dal quale scaturisse innanzitutto una sorta di piattaforma comune di intenti, cui applicare solo in un secondo momento e con maggiore condivisione la formula  organizzativa più adatta a perseguire gli obiettivi dati. Non si può infine negare come abbia ulteriormente frenato la nostra partecipazione quanto intervenuto con i provvedimenti di riorganizzazione del nostro Ministero che consideriamo – oltre che lesivi del ruolo tecnico-scientifico di tutte le professionalità interne al Ministero stesso – forieri di un generale
indebolimento dell’azione di tutela archeologica. Al di là delle diverse valutazioni che legittimamente si possono avere sul tema della riforma, ciò che temiamo è che questo indebolimento della tutela archeologica (e quindi del ruolo dell’archeologia pubblica), che noi già oggi percepiamo nel nostro lavoro quotidiano abbia ben presto conseguenze – a causa dell’interdipendenza che menzionavamo in apertura – anche sul fronte della libera professione.
5. A prescindere dalle nostre scelte relative alla proposta di coordinamento, siamo e saremo sempre disponibili a un confronto costruttivo e basato sui contenuti: abbiamo idee, proposte e prospettive da condividere e da discutere, insieme a tutti voi e agli altri archeologi italiani, convinti che lo sforzo da produrre lo dobbiamo, oltre che a noi stessi, all’archeologia e alla necessità di assicurare un significato e una prospettiva al nostro lavoro. In attesa che si definiscano ai sensi della L. 110/2014 i requisiti di conoscenza, abilità e competenza per la figura professionale dell’archeologo, perché non provare a trovare gli strumenti giusti perché si rinsaldi con l’archeologia, ed i suoi operatori, un legame logorato dal tempo e dalla macchina del contemporaneo?
Allora, perché non costruire come sede di confronto un “convegno nazionale per il futuro dell’archeologia in Italia”, nel quale discutere dei vari temi (dagli strumenti della tutela archeologica, alla valorizzazione e gestione del patrimonio archeologico) e individuare i punti di forte comunanza tra le nostre categorie? A noi sembra che occorra non tanto e non solo una legge sull’archeologia, ma sopratutto un progetto culturale globale che investa in toto il problema di “come convivere con l’eredità del passato”. E a voi?

2 pensieri su “Da Archeologo ad Archeologo, nella ricerca di un dialogo possibile. Lettera aperta ai professionisti, alle imprese e alle società di archeologi.

  1. Noi vogliamo fatti, di parole se ne sono dette abbastanza e diciamo tutti sempre le stesse cose. O si.passa ai fatti oppure non serve a niente.
    Non vuole essere un.commento irrispettoso, e l’idea di base é auspicabilissima e condivisibile, ma evidentemente quanto fatto finora, da tutti, é inefficace.
    Pertanto bisogna passare ai fatti, e costringere il ministro e la dirigenza centrale al confronto ed al recepimento delle istanze, alla compilazione (concertata) di questi maledetti decreti attuativi, ed alla emanazione di bandi coerenti con il riconoscimento professionale e quindi congrui dal.punto di vista economico, dei requisiti (richiedere dottorato o specializzazione quando una triennale é sufficiente, per una sorveglianza é semplicemente folle, ed infatti avviene solo in alcuni posti, manca una guida nazionale, cosa che crea un far west).
    Spero che ciò accada il.prima possibile
    Cordialmente

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  2. … a quanto scritto da Paolo Pecci aggiungerei che è auspicabile che questi decreti attuativi pongano anche l’accento sull’esperienza, che non ha necessariamente a che vedere con i titoli accademici… ci sono centinaia di stravalentissimi archeologi che non hanno fatto la scuola di specializzazione e in moltissimi casi neppure si sono mai laureati: buttare nel cesso un simile bagaglio di esperienza sarebbe dannoso tanto quanto continuare questa sorta di guerra dei poveri che sta distruggendo il patrimonio archeologico. Vero che con il ricambio generazionale nelle Soprintendenze sta entrando gente “più giovane” ma molti sono anche esacerbati e la situazione in cui si troveranno a lavorare è a dir poco assurda. Speriamo bene e appoggio ogni iniziativa che dia voce a tutti e non solo ai soliti quattro che hanno conoscenze politiche ormai note.

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